Franco Paris 

Translator

Canzone fievole filo oscuro
Paese come un panno
Che sprofonda

Paese di primaverile di fattorie e di latte
E figli di legno di salice

Febbre e paese estivo quando il sole
Genera i suoi piccoli nel grano

Recinto biondo
Con i contadini sordomuti presso i focolari spenti
Che pregano "Che Dio ci perdoni per
Ciò che ci ha fatto"

Con i pescatori che ardono sulle loro barche
Con gli animali maculati le donne schiumanti
Che sprofondano

Paese tu mi intacchi I miei occhi sono schegge
Io in Itaca con la pelle bucata
Mutuo il tuo cielo nelle mie parole
I tuoi arbusti i tuoi tigli si celano nella mia lingua

Le mie lettere sono: Fiandra Occidentale duna e polder

Affogo in te
Paese tu diventi un gong nel mio cranio e talvolta
Più tardi nei porti
Una buccina: maggio e coleottero Tenebrosa chiara
Terra.

Autunno. Senti. Crepitio. Senti quel martellamento?
Si avvicina ai nostri vestiti,  ai nostri capelli.
Pidocchi di suono. Che cos’è questo borbottio lebbroso?
Ragazza mia, sono i poeti là fuori che battono i denti.

I poeti più si approssimano alla loro morte
Più gemono truci alle stelle del firmamento.
Nella nebbia del mattino in cui le loro immagini si fondono
I poeti si congelano in un riconoscibile abbigliamento.

Senti la febbrile dichiarazione della loro prossima scomparsa
Perché il loro ultimo rantolo deve essere trasparente,
Far singhiozzare i loro lettori vedove.

“Oh, il nostro ego era troppo tenebroso!”si lamentano.
“Lo richiedeva il tempo, polinterpretabile come noi!”
E guarda, sgusciano dalle loro anime, a disagio,
La bocca piena di supplì e suppliche di pietà
Per la loro prostata, il loro plagio.

E in fin di vita i poeti scoprono di colpo
Gli acquietanti miracoli di dèi, aforismi,
Aspirine, tenerezze. Per la prima volta la loro amata
Può leggere con le proprie labbra qualcosa del suo amato.

E prima che i poeti, vuote mele invernali,
Disprezzate come scadenti durante la raccolta,
Cadano alla fine anch’essi a novembre,
Vogliono cadere per sempre comprensibili per i vicini.
Per dirla come il lattaio, come frutta ovviamente guasta.

Continuano ad ascoltare amareggiati il fruscio
Del giornale che continua a sbagliare il loro nome
E compilano i loro cruciverba
Pieni di aneddoti, ansie e amori incespicanti.

Ma troppo tardi, troppo sordi i poeti si accorgono
Che quanto era tenebroso e ottuso nei loro versi
Non diventa più chiaro con il logorio, con la persistenza,
Ma continua a corrompersi. Imperscrutabili
Restano la loro casa, la loro parola, l’equatore, l’azzurro.
La loro arcigna oscurità resta vile come il denaro
E fugace come la morte.

“Ma a proposito, e tu? Sì, tu! Non veneravi anche tu
La scissione, il fermento più del monumento?
Non cercavi anche tu in ogni mottetto un epitaffio?
Non strizzavi un emblema da ogni lesione?
Non trovavi il tuo io contuso in ogni piatto di animelle?”

“È vero. Anche in piedi sogno il letterale.
Sicuro. Fino alla fine quelle apprensioni, gerani,
Paradisi, fiordalisi, comparazioni insulse. Con
Fino a questo foglio compreso cadaveri di lettere.”

Adieu scrivono i poeti per tutta una vita
E mentre ingrigiscono come la lavanda a novembre
Continuano, cancrena e scherzo ed enigma,
A elemosinare miserevolmente compassione,
Come me per il logorio degli orecchi e degli occhi
Che ti hanno amato, ti amano.

Non sono, non sono se non nella tua terra.
Quando gridasti e la tua pelle fremeva
Presero fuoco le mie ossa.

(Mia madre, prigioniera nella sua pelle,
Si trasforma al ritmo degli anni.

Il suo occhio è chiaro, sfugge alla foga
Degli anni guardandomi e chiamandomi
Il suo figlio gioioso.

Lei non era un letto di pietra, né una febbre animale,
Le sue giunture erano giovani gatti,

Ma imperdonabile resta la mia pelle per lei
E immobili sono i grilli nella mia voce.

"Mi sei cresciuto troppo", dice lentamente
Lavando i piedi di mio padre, e tace
come una donna senza bocca.)

Quando la tua pelle gridò presero fuoco le mie ossa.
Mi deponesti, mai potrò più sostenere questa immagine,
Ero l'ospite invitato ma omicida.

E ora, più tardi, da uomo ti divento estraneo.
Mi vedi venire verso di te e pensi: "Lui è
L'estate, desta la mia carne e tiene
Svegli i cani dentro di me".

Mentre ogni giorno stai morendo, non insieme
A me, io non sono, non sono se non nella tua terra.
In me svanisce la tua vita roteando, non torni
Verso di me, da te non guarisco.

I miei versi sbadigliano ancora un poco.
Non mi ci abituo mai. Hanno abitato
qui abbastanza.
Basta. Li caccio di casa, non voglio aspettare
che le loro dita dei piedi si raffreddino.
Indisturbato dal loro baccano indistinto
voglio sentire il ronzio del sole
o quello del mio cuore, questa spugna traditrice che indurisce.

I miei versi non sono chiavate classiche,
balbettano volgari o millantano la loro nobiltà.
In inverno le loro labbra si screpolano,
in primavera al primo caldo si sfiancano,
mi ammorbano l’estate
e in autunno hanno l’odore delle donne.

Basta. Per altri dodici versi
di questo foglio li copro
e poi si beccano un calcio in culo.
Andate altrove a scocciare, rime scadenti,
altrove a tremare per dodici lettori
e un recensore ronfante.

Ora andate, versi, sui vostri piedi leggeri,
voi non avete calpestato con forza la vecchia terra
dove le tombe ridono quando vedono i loro ospiti,
cadaveri ammucchiati gli uni sugli altri.
Ora andate e barcollate verso colei
che non conosco.