Pietro U. Dini 

Übersetzer:in

acceso il falò ricordo,

mio figlio si misura le mie scarpe

come se si misurasse me stesso

le scarpe sono una stanza, la casa dei piedi

rifugio del figliol prodigo

in esse vive il tempo andato

ogni volta che incignamo delle scarpe nuove

crediamo di andar più in là di quanto promettono

mio figlio calza le mie scarpe

non so, non posso ancora capire

se una parte di me è tornata nella casa delle scarpe

o se una parte è già uscita e quale parte sarà meglio

e quante scarpe mi sono destinate, quante case

nelle quali non vivrò

guardo alla fiamma

con quella se ne vanno le scarpe di mio padre morto

nelle quali lui vivrà per sempre

una donna si pulisce il trucco attenta

e asperge l’ovatta

con una lozione che sa di peccato mortale

e di un ultimo bacio

poi va a dormire come fosse un’altra

i sogni soffici e

chiari come l’ovatta che sa

di mele e di erba rugiadosa

un uomo entra

nelle sue proprietà timoroso di toccare

ciò che è vietato e

esser mutato in rana, topolino

o lucertola

solleva le bottigliette, i pennellini,

i tubetti, un po’ nervoso e avverte

un crescente disappunto: dov’è, dov’è lui, dov’è

quel pannicello o quella lozione

che serve a pulire la coscienza

lei, perché lei ogni sera

con una sola frizione può ripulirsi

il viso, ma per me

e appunto come anch’io

anch’io vorrei ripulirmi, raschiarmi

ricominciare ogni giorno da capo

ma dove caspita, dov’è

qualcosa con cui pulire quel che sono

ricostruisce il mondo il sole che si leva a mezzanotte

di cui dicemmo si fosse sbarazzato: gli alberi,

immersi con le cime in cielo, per nulla mutati

il lago, che sconfinato ormai si mostrava a noi in varie

forme, ora è soltanto pantano con le sponde

a difesa di confini chiari

nel buio ci visitarono gli dèi

ninfe, satiri e fauni si ritramutarono in insetti

mosche, rane e farfalle

noi, pare, siamo nuovamente uomini, di nuovo o soltanto

amore che libera, amore che rende schiavi

il solo sentimento che oscura la morte 

arrendersi alla banalità e rifiutare l’illusione:

il lago è l’insostituibile personificazione della vista

non doneremo la vista agli abissi, perfino se dall’argilla

del nostro subconscio emergessero i potenti edifici dei paragoni

perfino un Erote che governa e scuota come farfalle i nostri

corpi denudati non donerà all’iride del lago la gioia della vista

né il panico che cresce quando la gioia scema

gli alloggi acuti dei molluschi che celano l’embrione mezzo morto

della canna che rabbrividisce nelle rive limacciose: soltanto gli strumenti

dei sentimenti e della nostra esperienza soffocante possono

tutto ciò tramutare

in una lingua quando vogliamo narrarci l’un l’altro

il dolore

e quando frusciano le foglie secche per la rugiada sull’erba molle

di nuovo possiamo congiungere la nostra esperienza con

le esperienze passate, con i mondi dell’osso e del corno

con gli dèi delle antiche culture, con ciò che è acuminato, che

s’è conficcato a fondo e che ferisce

il riccio è un’immagine comoda della pena

e del dolore che all’improvviso sopravviene dal buio, ancor più vero

spiaccicato in qualche posto sull’asfalto esalante di ruote che corrono

dell’uomo che vanamente cerca di superare

il suo tempo torbido che comunque gli toccherà di bere

con simboli appiccicosi e vomitevoli, coi molluschi, similitudini

con sapienza millenaria: «Amami, amami

tutta! E non esser triste, quando mi ama

qualcun altro…»

Sono tutti già morti

César Vallejo

Morì Julijus, che governava le bestie, i buoi lo incornarono,

un animale ubriaco non ama la gente fuggita dallo stazzo

morì Daktariūnas, lo chiamavano Debesėlis, perché

alimentando la fornace era completamente nero

morì Vytautas Norkūnas, visse solo, d’inverno

e d’estate calzava scarpe di gomma

morì lo zoppo Liudvikas Trumpa, da giovane non volle

fare il militare, s’infilò un chiodo nell’articolazione di una gamba

morì Valerka, sbatté andando in motocicletta,

ancora si vede su un palo la traccia della gamba

morì mio cugino Vidas, amava pescare, quando lo seppellirono

durante la semina delle patate, sul lago galleggiavano due cigni

morì Valdas, il sollevatore di pesi, era abituato

a viaggiare su treni merci, cadde sotto

le rotaie

morì il figlio del mio amico, nacque già morto

morì il figlio di Dio, anche lui morì già morto

morirono anche quelli che non conobbi e mai salutai

perfino non sospettai che esistessero

morirono case e santuari, morirono semi e frutti

libri e preghiere, morì la condoglianza per il prossimo

e la compassione per se stesso

morì e tutto è importante

morì e non c’è nulla che abbia senso

ogni mattina correvo al cimitero lì

accanto, per disperdere

mozziconi di sogni accumulati

di notte e un mal’odore

che s’accumula in bocca e

in quel posto del corpo dove sospettavo

che si celasse l’anima

è uno strano cimitero: da una parte

si riuniscono cattolici, atei, ortodossi

e dall’altra solo gli ebrei, seppure leggendo

le scritte sulle lapidi è duro credere

che per loro la Tora sia stata il più importante

scritto della vita

un giorno un brutto muro di blocchi

di cemento separò il cimitero

a me piace il cimitero, la paura della morte

stimola a conoscerla più intimamente e non

a correr via lontano

ma da quando c’è un muro, evito

di trovarmi lì

i morti che non conversano son peggio

dei vivi che si strozzano l’un l’altro

una donna che corre verso la fermata

d’un autobus in sosta per poco, la donna s’affretta

e oscilla di lato per il peso dei suoi fagotti, impacciata

simile a una mucca costretta da una sella,

i capelli scarmigliati, coi seni che le escono dallo scollo,

le gambe a ‘O’, i polpacci con le vene varicose,

le labbra distorte dalla paura: ecco che ora parte

il mezzo di trasporto e lei tarda coi pesanti

fagotti al tavolo dove ci si appoggia coi gomiti ++

ormai non ce la fa

sbatte a terra i fagotti

còlto lo sguardo del passante

di colpo s’imbarazza e impettita guarda

oltre i lillà dipinti d’azzurro

e concentrata

aspetta,

prototipo della madre del Cliente

a notte qualcuno striscia col suo corpo nudo

senza posa è costretto a grattarsi, rigirarsi, graffiarsi

la pancia sino a farsi male, le cosce e l’inguine

a stuzzicarsi senza eros

il sesso flaccido

e poi si leva di scatto, accende un lume

e a fondo allora perlustra un così noto

corpo estraneo

ancora, come più volte prima

non trova nulla, non vede:

nessun insetto, né ferite purulente,

né vermi, solo il sudario

del letto malamente riverso

e dalla porta è rimossa la pietra

dalla stufa scavai la cenere

raggrumata, i coaguli di scorie

e trovai un chiodo insanguinato

così da tanti secoli mi scaldo

alla tua pena

fa freddo

Forse c’inseguono ancora i radar smontati

forse osservano le nostre orme sulla neve

i vetri da tempo impolìti dei binocoli

dal freddo affondano nella sabbia lastre di ghiaccio

intorno a cosa scorrazzano nella notte

i cani addestrati ormai non più necessari

negando una qualche legge di persistenza ci scaldiamo

cedendo l’un l’altro il proprio calore

duri raggi crepitano sulla crosta nevosa

non raggiungeremo la chiatta che di nuovo

sprofonderà nel continente

perché ora son così azzurri i tuoi occhi

cosa tradiscono di quale morbo i riflessi

non estinguiamo questa notte in una camera dalla scialba luce

mi ridesterò e vedrò te che gli occhi serri

le tue ciglia sorridenti

dove ci dobbiamo affrettare in nessun luogo sfuggiremo

resteremo sempre nella zona di confine

non temo il ticchettìo dell’orologio

comunque sia noi siamo delle inclusioni nel tempo

Smesse le sue sanguinanti foglie

l’autunno esibisce ancora il suo corpo nudo

e scorrono grandi gocce di pioggia

per i suoi muscoli sfregiati

ancora forza sussulta nei tendini degli alberi

ancora palpitano nelle tempie celesti

passione e risolutezza ma intanto

l’inverno espone le coltri ad arieggiarsi

e cadono dal cielo piume leggere

come candida forfora dal capo dell’autunno

Famelica di sogni di mendicanti

sei tu o mia città o mia paranoica città

tu generosa tu talora pietosa

coi tuoi neonati ridesti nei nosocomi

o città i tuoi alberi suggono morfina

ormai non comprendo i loro accordi

udite voi il loro mesto canto

coi fuochi corrono dietro al treno

non sono più là e neanche queste illusioni

disperse nelle vastità delle russie

o città com’è tetro nelle tue strade

coi teschi a giacere come pietre

nulla più si conosce a questo mondo

nessuno più che sappia esser Cristo

sei tu o mia città o mia paranoica città

tu crudele tu che da noi vieppiù t’allontani^[1]

^{[1] La città implicità di riferimento è Vilnius, in particolare il senamiestis (centro storico) e il quartiere di Užupis; il componimento fa parte del ciclo Larissa, ed è ispirato alla figura del giovane poeta Rimas Burokas (1953-1980), morto in carcere dov'era stato recluso per «vagabondaggio e attività dannosa alla società [sovietica]».}

Dove le nebbie della sera i capelli

arruffano sull’ansa del fiume

una donna conta convogli

di cui da tempo più non abbisogna

s’addolora per l’anima del becchino

il corpo slavato del morto

la stella come creaturina paurosa

corre sotto la volta dello stagno

la vita è piena di realtà

come un secchio di trucioli e liquami

dal pozzo sbircia fuori Caronte

con occhietti ingannevoli di furfante

dal fondo ha sollevato un obolo

e fa un cenno di stizza: “mi riposo”

l’anima del becchino commossa

scoppia in pianto per pena di se stessa.

Uscii di casa e la mia casa è vuota

uscii di casa e la mia casa è vuota

oh sì, la mia casa è all’altra parte del mondo

là fra i vetri della finestra dormono nell’ovatta giocattoli di vetro

là fra i vetri della finestra dormono nell’ovatta giocattoli di vetro

ma no, la mia casa non vuol più lasciarmi entrare

i miei occhi errano per grigie vie di periferia

i miei occhi errano per grigie vie di periferia

e così la mia casa vuota aspetta che tu ritorni

Quasi un Matisse: edere in fiore

spumano lussureggianti con possente lascivia

vuoti saloni percorsi da ragnatele

ricordo di una prospera magione

dove estratto il tabacco dalla tasca

e caricata la pipa sul canapè

soleva fumare un poeta canuto e vecchio

finché l’aroma di ciliegia inondava la stanza

e portava nel passato della gioventù

benché il vino nero delle antiche cantine

dalle riserve copiose degli avi

ormai sapesse di muffa ferrosa e di morte

avuta di sé pietà non sopportò altrui

almeno nell’odio restando creatore:

forse a guardar meglio

quel ritratto è il tuo e in esso sei solo tu

tàccole nere d’un metallico bluastro

sottoquercia in una valle color dell’oro chiaro

come fosse un quadro sacro: gli intimi

seppelliti ancora nell’altro millennium

scivolati nell’abisso della sclerosi

illumina talora una luce acrimoniosa

d’una beltà malata àlita il caos

fra gusci uno scoiattolo fra ossa una lucertola

parquet e cenere e tracce di pianelle

irrisposte lettere finanche inaperte

il cuore è a posto ma con gli occhi c’è qualcosa

m’è scomodo l’abito quest’oggi

ma la più schifosa fra tutte le cose

è quella fotografia innamorato di te:

forse, anzi certo, a guardar meglio

quel ritratto è il tuo e in esso sei solo tu

Una bianca rete e azzurrina

stesa sopra tutta la germania

con la pigrizia dell’età anziana

rinvolte le ossa polverose

compro una mappa al distributore di benzina

e un miscuglio di conchiglie marine^[1]

dopo la dolce esplosione dell’amore

sulla strada api spiaccicate

e scatole color arancio scuro

nell’altra mia vita, di cavallo,

fui un destriero durante un funerale

nell’alto medioevo fui sfiancato nei tornei

dei Prussiani e ancor vivo gettato in una fossa

prono, ripiegate le zampe anteriori

a premere sullo sterno, crac, saltarono la prima

e la seconda vertebra del collo, gli occhi

verso dove cala il sole, verso gli ittiofagi d’oltre mare,

la groppa in alto levata

nell’altra mia vita di cavallo

sudai nella miniera di un tedesco a Banská Štiavnica

nel buio di una topaia, divenni cieco

una notte sotto la luna nuova,

mi condussero in scuderia e poi poco a poco

nottetempo, sotto la luna che cresceva piena, mi lasciarono

pascolare e gli occhi sempre più s’abituarono

nell’altra mia vita di cavallo

da Naugardukas a Wilno montai Mickiewicz

vagai nelle vie della città

su coturni di legno

per morire tornavano tutti nella terra amata, a Vilnius

ora mi rivelo nella zona di Belmontas                                               

mi capita anche a Sereikiškės                 

temo ladri e automobili

sulla groppa porto un poliziotto

color del bosco lontano

nell’altra mia vita, di uccello, fui usignuolo

in una città di colli e valli presso il Danubio,

circondato da boschi e nella Lituania dei campi

e delle foreste svegliavo le falciatrici di fieno 

nell’altra mia vita di uccello

l’intera notte chiara da maggio a giugno

uscivo di senno, tutta la notte di Bratislava

gareggiai con quelli della sera

e poi con gli uccelli del mattino,

sbaragliandoli tutti, un rabbioso cuculo

del mattino però sorprese il poeta nudo

centesimi d’euro in tasca, la tasca nella stanza accanto,

rimangono l’amore, la morte e le reclute

tu stesso farai cucù

nell’altra mia vita di poeta

notai che tutte le francesi, che si viaggi

in cuccetta o in volo, mi cullavano, giusto accanto,

senza bisogno di parlarci,

con le parole o con le mani, o con la punta

delle dita ardenti, o con la punta delle labbra,

sogno in uno spazio rinserrato

^{[Banská Štiavnica – Bratislava – Vilnius, 1-12 giugno 2003]}

Notte chiara, calda e tenera come il tuo interno coscia,

quel mattino pisolerai, ti ridesterai col giorno e a notte

sonnacchierai a mezzo con me, oltre i vetri come sempre

turbinerà, a raffiche, oltre i vetri mani fredde per la gelata

toccano la pelle bianca dei meli, s’amplia il giardino semi- 

vuoto a perdita d’occhio, stendono il bucato di lenzuola

di tela le madri morte, pesanti e lente, le loro vesti a fiori,

che di rado ancora appaiono in sogno, frusciano

o cara, o mia cara, tu mi ridoni me stesso, debole e terso

^{[Fabijoniškės, 7 gennaio 2002]}

andavo dietro al carro

i tendini d’achille tesi come corde

suonavano la ritirata

una spada coi denti smozzati

scozzò la pietra schizzarono scintille

non ero l’ultimo dietro di me

una colonna s’allungava fino all’orizzonte

dove fiammeggiava il sole rosso del tramonto

la battaglia fu una delle tante

non so neanche a chi stavolta cercammo

invano d’imporre un nuovo modo

di vita io stesso da tempo m’ero

liberato di questa dannosa abitudine

sono un soldato abbastanza bravo

eseguo gli ordini a dire il vero

da tempo non ho letto nessuno di quelli

i cui nomi sono scritti nelle cronache

più spesso penso che forse non esistono

la fantasia dalle belle arti

si è spostata alle imprese virili

a volte penso che anche il nemico non sia quello

forse non è il nostro magari neanche nemico

forse soltanto sdrucciolo su un grumo d’argilla

sbatto la testa sullo stipite della porta

e poi vaneggio attraverso le notti

sul rappresentante di dio sulla terra

sui rappresentanti dell’uomo in cielo

sempre sogno un posto più caldo

un qualche dove o un ufficio

per inviare condoglianze alle madri dei soldati

preparare attestati di sana e robusta costituzione

anche se so come finisce questa vita

mi trascinai nel mezzo dei miei anni

alle mie spalle bruciava un barbaglio inumano

davanti agli occhi le terre inconquise

era la più bella stagione dell'anno l'autunno.

portavo lettere

spesso io stesso ne scrivevo

su carta intestata

e le piegavo a triangolo

senza busta

scrivevo solo il mittente

nessuno si aspettava di più

ricevono e piangono intanto

silenzioso sguscio attraverso la porta

più spesso facevo centro

il figlio di uno è in una trincea sul fronte

la figlia d’un altro è una depravata

la gatta d’un terzo è scappata di casa

il quarto è talmente solitario

che a ogni disastro terremoto

incidente d’auto lui sempre s’aspetta

che là potevano esserci suoi parenti

imparai a non parlar tanto

le è capitata una disgrazia condoglianze

suo devotissimo oltre una illeggibile

macchia d’inchiostro o angolo bruciacchiato

divenni amico intimo

m’invitavano al tavolo del tè

mi regalavano un qualche berretto

o delle calze di lana

finalmente mi sentii un essere umano

cui non è estranea di estranei la pena

svogliato spingevo i pezzi degli scacchi

come sempre dapprima incurante

come se non fosse un gioco serio

ma quando mossi il re

compresi d’aver compiuto l’arrocco

più importante in vita mia

lasciai la casa e uscii nel campo di battaglia

senza amici a coprirmi

compresi quale errore avevo commesso

a non curarmi dei pedoni

quasi fossero insignificanti

carne da cannone

dal mare infuriava un vento salato

recava lamenti e grida

destrieri incespicarono sull’aguzze pietre della lingua

eburnei campanili coltivavano ancora

la speranza d’un pensiero puro ma seppi

che non sarebbero entrati

nei nuovi territori e così resteranno solitari

circondati da un’orda d’incompetenti

gli alfieri ebbero libertà di movimento

ed essi rischiarono di più

la morte li colpiva superata la velocità

erano essi il mio alter ego

invero la regina avevo soprattutto

pena di lei sempre fedele

difese i miei punti deboli: protesse

dai più remoti pericoli ostacolò il cammino

alla regina nera ma lei sola non poté più

difendermi dalla passione del gioco

non morte per mano traditrice mi minacciò

né per mendace parola:

m’attese lo scacco matto più banale

scavammo a lungo

le vanghe affondarono fonde nella sabbia

nessun suono che provocasse un fremito

nessun scoppio della fantasia

sapevamo: qui fu una città

qui s’incrociarono le vie di nomadi e mercanti

sulla mappa si vedono bene

monete con i profili d’imperatori

mitre vescovili rosicchiate dalla peste

ossa e altro ciarpame da museo

non ci interessavano altro era il nostro compito:

confermare la versione della morte di dio

a giudicare dagli apocrifi d’una setta

qui s’interrompeva la linea del suo viaggio

ovunque scorgemmo segni della sua creazione

gli alberi ripetevano le forme delle foglie

la sua mano condusse chiaramente sotto il ghiaccio

i quadri sui laghi solo lui e non altri

inventò l’esametro

ovunque chiare linee che parlano

di un gusto incorrotto

forse anche troppo classico

eppure evoca un sentimento di sicurezza

proprio come intese iddio

anche la morte del creatore di quella

perfezione doveva esser perfetta

oggetto regolare di profondissimo senso

un levigato cristallo solo così ci figuravamo la sua morte

di lui parlavamo solo fumando negli intervalli

dei lavori nei campi ma nessuno osò

chiedere cosa sarebbe di poi quando avremmo trovato

gli annali ufficiali confermarono che quell’oggetto

occorreva cercarlo nei cieli

invero tentarono solo di imbrogliarci

distoglierci dalla retta via

in nessuna religione manca l’egoismo

del cosiddetto insegnamento esoterico

il percorso da noi scelto fu terreno

sentimmo di esser nel giusto

di esser dalla morte non più lontano

la notte di san bartolomeo mi nascosi sotto al fieno

non ero di altra fede né avevo nessuna opinione

quelli certo sono i peggiori e non possono attendersi

né la grazia di dio né di comprarsi le indulgenze

più spesso si aggirano nel podere rigovernano

gli animali rastrellano il fieno o lavorano

in ufficio incollano lettere con la lingua

non finii bruciato poiché i fatti avvennero

nella piazza del mercato vicino alla chiesa

illuminandosi con le fiaccole i giusti eseguirono

il ballo di san vito gli infedeli sanguinavano lamentavano

come sempre d’esser in meno il vento afferrò una fiamma

la agitò sopra i tetti fu bello come nella notte dei morti

al cimitero la rivoluzione passò

in una notte o forse a me sembrò così

forse trascorse mezzo secolo

forse i giusti invecchiarono e lasciarono spazio

ai loro figli quelli son comunque diversi come sempre

hanno studiato a oxford e a monmartre

la fede dei padri la rispettano ma loro ormai no

sbucai dal mucchio di fieno al mattino

nell’aria c’era un aroma di nuova fede

forse mi sembrò forse erano solo resti fumanti

il loro aroma com’è noto abbandona le case per ultimo

invecchiarono gli amici miei

omero al secondo bicchiere

racconta le solite storie

sulla leva nell’esercito sovietico

nella flotta del mar nero

trasportando un qualche carico radioattivo

che per poco non provocò una guerra ma tutto finì

bene e ripete sempre cherchez la femme

buono anche dante a non distinguere chi è già morto

da chi ancora no dal tavolo ce li spedisce tutti

con bestemmie russe

neanch’io son migliore

abbracciato all’alzheimer discetto in un orecchio

sulle ossa di dio sulle ceneri vieppiù m’ubriaco

allora comincio a ballare con elena

un qualche ulisse provoca una rissa

ce la filiamo da quest’inferno a uno a uno

credevo che gli amici

tutti per uno apparissero poeti

ognuno con la sua visione d’oltremondana vita

avresti dovuto intendere il tuo posto sotto l’acqua

fra alghe incolori

dalla barca appena visibili

fra i muti pesci del lago

dove il limo è il più morbido giaciglio

e i migliori sogni i cerchi delle gocce di pioggia

sulla superficie del lago

avresti dovuto intendere o eugenio

vita e morte sono vasi comunicanti

il viaggio incomincia là dove finisce l’ossigeno

avesti tanto di ciò che avesti

ora non ritornerai nella città di cenere

e non dirai chiedo scusa

volevo come nerone deliziarmi

delle colonne di fiamme sulla città eterna

il tuo nome è da tempo obliato proibito

perfino pubblicarlo nei giornali scandalistici

come se ti fossi aspettato di più

per la passione per ogni attimo d’estasi

paghi secondo tariffa notturna

ma la notte in questo paese non è imputabile

il tuo posto fra quelli che neanche così

imparano a respirare coi polmoni

che si fecero ricrescere squame di specchio

e si rivoltolano in un torbido sogno

il tuo posto d’inverno o d’estate è sotto il ghiaccio

foss’anche sotto quello sottile foss’anche

sotto quello che non c’è affatto

un pesce sventrato senza uova squame senza testa

su un banchetto al mercato di kalvarija[1] perdeva linfe

l’unico così in tutto il mercato

una giornata calda come poche

il pungente solicello di černobyl

pizzica avido i polpacci di giovani donne

spinge a chiuder gli occhi oh che bello

me ne ricordo come fosse oggi

comprai quel pesce per le nozze

le mie e di chi altri se no

per tre giorni ne mangiammo

e ci bevemmo sopra della birra žigulis[2]

dopo tredici anni di agonia d’amore

avrei saputo che diventerò un pesce

dopo morto salirò nel cielo dei pesci

nel mar baltico presso šventoji[3]

così per nulla santo per le radiazioni

un po’ più grande di un carassio medio

con le lische trasparenti

gli occhi grandi e la bocca piena

della tua storia

^{[1] Kalvarija, via di Vilnius e sede di un importante mercato cittadino.}

^{[2] Marca di birra, dal nome di un marchio automobilistico d’epoca sovietica.}

^{[3] Šventoji, letteralmente ‘la Santa’, è una località marina sul Mar Baltico; il toponimo permette il gioco di parole con il verso successivo.}

cosa sarei se fossi davvero

non così come ora essere umano

è ignoto di quale fede una testa per sé

dio per sé una lingua da rattoppi di linguaggio

sarei un camionista di viaggi lontani

uguale cosa mangiassi uguale cosa pensassi

ovunque dormirei con chiunque

mi fluirebbero immagini accanto non mi lamenterei

in un ruscello o nella neve mi sfregherei

le mani oliose nessun femminismo

sostenitore di patriarcale poliginia

fosse anche per una notte

leggerei quattro ruote

di nessun sogno di nessun inconscio sussulto

né di lamenti intellettuali sul senso dell’essere

a nessuno sarei debitore e nessuno a me

traverserei la vita e l’europa su un camion

e di me infischiatevene

maturai a lungo

fermentato da buone bacche non dell’uva

dal fondo genetico locale

dagli orti in cui in altro tempo

il cavallo del tameralno concimò la terra

tenuto fresco troppo vicino alla finestra

ho visto molte cose della vita

imparai a mutare i miei colori anche di notte

nessuno che potesse dire se ero pronto

il padre mi toccava di rado

avevo molto tempo

per fermentare nei miei succhi

a volte fino a venirmi acidità negli occhi

e così non maturai

ancor sempre gorgoglio e mi sale in superficie

una grande bolla d’aria

temo di farmi aceto

cosa dirò nel giorno dell’ultima baldoria

quando giungerà dioniso e chiederà chi sei 

era davvero lui, autentico e indubbio, 

senza nessun controllo. Su una carrozza dorata 

viaggiava, tirata da quattro cavalli bianchi,  

che il comitato organizzativo richiese a un milionario 

convertito. Autentico e unico, imbarazzato appena 

sorrideva dalla finestra della carrozza, e guardava 

tutti e nulla. Lo seguiva dietro la folla, stette 

ritto sui due marciapiedi e alle balaustre dei gradini, 

lo salutavano dagli alberi ragazzotti che apposta 

ricadevano sull’asfalto, senza ancora poter credere 

che più non duole e ormai non farà male mai più. 

I militari lo salutarono con salve di armi 

ormai inutili, i ministri si riunirono 

in un’ultima seduta solenne, risa 

e giubilo si riversarono nella via, urla, 

evviva e urrà, e infine, alla fine, auguri 

e soltanto a scrutare bene, da certi 

moti, da brevi e strane occhiate fu possibile 

percepire cosa avvertisse la folla: 

invero sveniva per odio e per paura.

è lui che tira fuori il limone dal tuo tè 

è lui che rosicchia i gambi del tuo tavolo 

è lui che accende e spenge le luci, cammina 

                                                                e schiocca le dita 

lui lancia i tuoi bimbi verso il soffitto 

telefona agli amici alle quattro del mattino 

poi rompe nel muro una bottiglia e 

                                                                piscia nell’acquaio 

è un ateo di natura, è una punizione divina 

è il tuo inquisitore e una dolce vendetta 

dorme con la tua donna e dorme quieto 

                                                                come un neonato 

lui viene e se ne va come gli gira 

lui di proposito non ti dice che ora è 

lui ride di te, ride e ride a 

                                                                crepapelle 

lui intinge il tuo limone nello zucchero e mastica 

guarda negli occhi e dice: «un giorno ti ucciderò» 

guarda, dondola                 

                                                                la tua testa e ghigna.

è sempre così: 

senza ragione né perché 

prendono a urlare 

poi sembrano riconciliarsi con qualcosa 

tacciono e guardano in tutti gli angoli 

a lungo, finché ancora senza motivo apparente 

ricominceranno 

io allora prendo e dico 

quel che mi sale alla bocca, ma forte: 

domani sarà nuvolo 

con schiarite! 

(stupefatti, si guardano: 

è un manicomio, uno dice) 

e cos’altro posso io, 

piccolo radio ricevitore 

portatile edizione del ’66?

edifico una barricata 

intorno a me 

spingo l’armadio, il letto 

rovescio il frigorifero 

loro inviano un negoziatore 

il venditore di pizze 

opporsi è inutile, dice quello 

opporsi è inutile, convengo 

quello esce come un vincitore 

lasciata la pizza alla polpa di granchio 

arriva il postino: c’è per lei 

una raccomandata, firmi qua 

firmo, entrambi sorridiamo 

opporsi è inutile, dice la lettera 

non discuto, convengo gentilmente: 

non c’è neanche la più piccola speranza 

allora arriva un mormone: conosci tu 

il disegno divino, chiede il mormone 

lo conosco, opporsi è inutile, dico io, 

e il mormone per le scale mormora qualcosa 

perfeziono la barricata: tappo i buchi 

con vecchi giornali e gomma da masticare 

suonano di nuovo alla porta, e ancora 

oltre la porta li venditore di pizze 

il mormone e il postino 

che altro c’è, chiedo io 

aveva ragione lei, dicono quelli, opporsi 

è inutile, e non c’è la più piccola speranza 

perciò stiamo dalla stessa 

parte della barricata

sedeva dal barbiere con la mascella insaponata 

e ascoltava la radio FM 91,4 MHz 

finì dell’acqua nel rasoio 

e gli arrivò una scossa di 220 volt 

che strillò anche la saliva 

poi giurò su Dio d’aver udito 

dire, nel più chiaro dei modi, 

dall’annunciatore del Vaticano: 

«avete udito la voce del Signore».

quella cosa dove guardiamo 

si chiama cinescopio 

sembra piatto 

e invece è come un canestro 

colmo di piccoli puntini 

che ballano come 

pulci natalizie 

luccicanti 

quando i puntini ricevono l’ordine 

ubbidienti vanno ai loro posti 

e si dispongono in “albero”, “grattacielo” 

“crisi balcanica” o “L. di Caprio” 

(guarda un po’ come brilla la sua “bianca 

camicia” solo per i puntini) 

se allora vedrai qualcosa 

di terribile, non ti spaventare, non farti 

ingannare 

non ci sono là né giungle, né alluvioni, 

né zombi con seghe Seimer a motore 

ma io non dico che non ci sia nulla 

(come fanno gli oscurantisti) 

c’è un’infinita moltitudine 

di puntini

calura e appena percepibile fetore  

dai cassonetti di monnezza, nell’asfalto 

s’è impresso un bottone, ferma  

è l’aria, appiccicosa e irrita le narici,  

vi ristagna la biancheria come la gente. 

Che si muova una mano, convincetevi di non essere 

ancora diventati degli inclusi nel paesaggio: 

fabbriche e camini nella calura che vien male  

solo a pensarci. Siedo sul bordo d’un marciapiede  

e non oso fumare, per tutto ciò ho la nausea, 

per il fremito incandescente dell’aria, 

per il pianto lontano d’un neonato, immoto  

siedo e solo un gruppo di ragazzotti 

si diverte sugli schettini: come beduini  

di cenci vestiti, a occhi stretti 

verso di me guardano sempre, 

disegnano circoli infiniti e mi si fanno 

sempre più presso, con occhi che brillano, 

tumidi di linfa e di corte parolacce 

armati che io, lo giuro, mi meritai 

siedo, non oso crederlo, stupefatto 

e lentamente invecchio.

girovagato per il mondo e imparato qualcosa

tornò a casa recando doni 

nella macchinuccia nuova 

s’assiepò a tavola l’intera grande famiglia, 

per l’occasione assaporò Jack Daniels e 

fece smorfie cortesi 

il viaggiatore, scolato qualche bicchiere 

eccedette, languì la conversazione 

e così prese a lamentarsi un po’: 

i tedeschi son ordinati, gli irlandesi laboriosi, 

gli olandesi ospitali, solo noi, lituani, 

non ci distinguiamo in nulla 

allora il padre afferrò un bastone, 

e glielo fece sentire sui denti 

mentre gli diceva: così ora anche tu 

avrai di che distinguerti fra gli altri 

all’inizio bisogna in ogni modo 

farlo infuriare, imprecare e burlarsi di lui 

finché gli venga la schiuma alla bocca 

allora dargli nelle mani uno scudo 

e guardare se già ne morde il bordo 

per la rabbia 

se è così, allora giova consegnargli, 

ma cauti, anche la spada 

e in un batter d’occhi far sparire tutti i nemici 

ed ecco il berserk ancora mordicchia lo scudo, 

dapprima per l’ira, e poi 

meditabondo 

allora è ormai possibile metterlo seduto in faccia  

al sole, e rifilargli una crosta di pane, 

perché s’ingozzi 

ma perciò non pensiate ora di sapere 

come si vince un berserk 

un berserk come quello nessuno 

può vincerlo e neppure 

un altro berserk 

vidi 

la bruma sommergere il lago 

e sospendere le isole 

il mio è già sommerso 

le mie 

già sospese 

in alto 

come nel manuale di Swift 

  – tu capisci  

     che tutto si rarefa: 

     le visite 

     gli abbracci 

     i denti e i capelli – 

del bianchiccio si forma al lato degli occhi 

la tua amata non annuserai più 

seppur in volo accorrevi 

come la farfalla alla fiamma 

la bevanda ingiallirà 

la lingua 

la battuta si farà appiccicosa 

e l’oratoria farfuglierà 

  – eppure sempre tasterai  

     con dita anchilosate 

     la cerniera dell’oblio

Un cane infreddolito lecca 

le mie mani. Neve 

e pietre. Di bimbi 

nella finestra. Nei tubi 

ghiaccia l’acqua, si spacca l’albero 

diventano vapore, una luce 

perlacea palpa il vetro. 

Tutte le condizioni ora 

sono instabili. Il tempo 

come il vento sbatte 

lungomare, si usura, 

si irrigidisce. Mi manca 

questo sale, la tua pelle 

che si riscalda sotto il palmo 

delle ruvide labbra 

di una tersa presenza. 

Tu mi creasti e allora sostienimi.

Non mi creasti, non sostenermi.

Mi desti la vita e allora proteggimi.

Non me la desti, non proteggermi.

Mi crescesti e nutristi.

Non mi crescesti né nutristi.

M’insegnasti e consolasti.

Non m’insegnasti né consolasti.

Mi dicesti: sei bello e giusto.

Né bello, né giusto.

M’ordinasti di continuare il mondo.

Non l’ordinasti.

Dicesti: avrai testa, labbra, occhi.

Non ho né testa né labbra.

Dicesti avresti incluso un cuore.

Non mi desti un cuore.

Dicesti: avrai cosa amare.

Non ho cosa amare.

Dicesti che sarei un essere umano.

Essere umano non sono.

Dicesti che sarei un uomo.

Uomo non sono.

Dicesti che sarei una donna.

Donna non sono.

Mi dicesti che avrò bisogno di amici.

Bisogno non ne ho.

Dicesti che dovrò uccidere.

Non ucciderò.

Dicesti che il mondo è infermo.

E’ infermo.

Mi dicesti che presto morirò.

Non morirò.

Mi dicesti che m’avresti amato.

Mi amerai.

Mi dicesti che mi tradirai.

Mi tradirai.

Tu dicesti ciò che dicesti che dirai?

Non lo dirò.

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Fabijoniškės, 22–23 agosto 2000

quando m’avviai per la ferrovia, infelice e bollente
non tu china al mio fianco e non mio quel paese
tocca i monti, i colli, afrore di sudaticcio
ficca nell’àsola chiusa una foglia umida di tiglio

fronzuto, della vecchia giacca spalancato il risvolto
quale battello ubriaco là rimbaudeggia sulle pietre?
ricordi quel gambarotta ubriaco anch’egli e l’albatros?
la via dell’oriente traccia l’occidente, avido d’Europa

e le sere qui aspettano al varco nelle giovani fronde dei colli
accecarono i papaveri, lungo i binari argilla
blu, vacilla la luna, s’aggancia al margine
d’una nube o pianeta, o alla posta d’internet

secondo il tuo ordine, mangiai il maiale saporito come
rare volte, bevemmo poi per lei, o Signore, dalle salute!
giacemmo in saloni o ai falò e dividemmo il companatico
visitammo il castello, le carceri e lì, dove per gli uomini è a destra

barcollammo ma rinvigorimmo per il vino e la fede
le miglia ferrate si sciolsero, se le portarono i vènti
i vapori e i tizzoni, se le portarono nubili sposine

fotografie scattate di nascosto, lontananze da fino a
è stato, è invenzione… la nipotina siede sul vasino, vedi?
senti, come in sogno lei ride? vedi, i lampi verdi dei suoi occhi?

amo te come i propri deboli occhi, indebolendomi
mi manca il tuo respiro che del mio ha nostalgia

7–8 giugno 2002